Venezia, 22 agosto 2022 – Ogni pietra di Venezia ha una storia da raccontare. Perché in una città che sorge sull’acqua il materiale edilizio deve essere appositamente importato, oggi come allora, e il suo riutilizzo è da sempre all’ordine del giorno. Lo sanno bene Lorenzo Calvelli, professore all’Università Ca’ Foscari ed esperto di epigrafia latina, e il Museo Archeologico Nazionale di Venezia, che nel suo cortile custodisce alcuni dei più interessanti reimpieghi epigrafici ritrovati nella città lagunare. Insieme, nell’ambito del ciclo d’incontri informali intitolato “Storie di Piazza San Marco” e dedicato alla scoperta dei lati più insoliti della celebre piazza, svelano ai visitatori del museo i misteri di antiche iscrizioni latine e del loro reimpiego.
Contrariamente a molte altre città italiane, Venezia non sorge su un insediamento antico di origine greco-romana, sotto la città ci sono le barene. Già questo sarebbe sufficiente a renderla unica nel panorama sia nazionale che mediterraneo; e tuttavia, nel corso dei secoli sono arrivati moltissimi materiali edilizi di epoca greco-romana, soprattutto dalla vicina città di Altino, che sono stati utilizzati per la costruzione di edifici, vere da pozzo, o per abbellire la città stessa.
Un esempio lampante è la struttura originaria del “Paron de casa” risalente al IX-X secolo che, come si scoprì in seguito al crollo del 14 luglio 1902 e allo scavo delle fondazioni, fu edificata con materiali di reimpiego. Per l’occasione, si chiamò a sovrintendere i lavori l’archeologo veneziano di fama mondiale Giacomo Boni, già autore degli scavi del Foro Romano e del restauro di Palazzo Ducale, il quale appurò proprio l’utilizzo di mattoni bollati e pietre di epoca romana.
Di questa importante scoperta ne resta testimonianza una stele funeraria in pietra, inserita nel quarto gradone del basamento del campanile e oggi custodita al Museo diocesano d'arte sacra Sant'Apollonia. Ricavata da un blocco di calcare di Verona, la lapide era spezzata in basso, e sono giunte a noi solo nove righe di testo, in cui si ricorda Lucio Ancario, figlio di Caio, cittadino romano iscritto alla tribù Romilia, che in passato aveva ricoperto importanti cariche militari, civili e religiose nella colonia di Ateste, l’odierna Este.
Anche molte delle più vecchie vere da pozzo veneziane sono frutto della rilavorazione di basi di statua, rocchi di colonna, altari votivi o funerari. È il caso, per esempio, di un’urna cineraria a cassetta, conservata nel cortile del Museo Archeologico Nazionale di Venezia. Databile tra I-II secolo d.C, la sua storia resta ancora leggibile sulla superficie della pietra, dove sono poste due iscrizioni, in una sorta di dialogo a distanza tra donne. Se da un lato si riesce a decifrare che Hicete Terenzia, schiava liberata di Caio, ordinò che fosse fatto per testamento un monumento funerario per sé stessa, la madre, il padre e la sorella, dall’altro si documenta il trasferimento di quella che ormai era diventata una vera da pozzo al monastero delle benedettine di Ognissanti, nel sestiere di Dorsoduro, avvenuto all’epoca della badessa Pacifica Barbarigo nel 1518.
Alla destra della riutilizzata vera da pozzo si trova invece un sarcofago in pietra d’Istria proveniente da Pola, databile attorno al III secolo d.C. Anche qui c’è una storia che aspetta solo di essere raccontata: Marco Aurelio Eutyches e Aureliana Rufena hanno posto per sé stessi questo sarcofago di comune accordo, avendo passato una vita intera senza aver mai litigato. Sono iscrizioni che testimoniano la quotidianità dell’epoca romana, un tema forse privo di fascino per i grandi autori latini come Cicerone o Seneca, ma che per una coppia di sposi di famiglia patrizia veneziana del Cinquecento come Francesco Soranzo e Chiara Cappello assume un significato particolare. Infatti, vedendo il manufatto a Pola, la coppia decise di portarselo a Venezia, trasferendolo nella chiesa di San Polo, e di usarlo come proprio, incidendo sul coperchio un’iscrizione funeraria per sé stessi. Ed ecco quindi che un manufatto di epoca romana arriva a raccontare una rara storia di amore coniugale, anzi due.