Nella quiete di San Francesco della Vigna, cuore del sestiere di Castello, si tramanda dal lontano Duecento un’antica tradizione vinicola veneziana

22 Settembre 2022

Venezia, 22 settembre 2022 – Da ottocento anni un’area a nord di Venezia, nascosta tra le calli e i campielli del sestiere di Castello, è custode di un tesoro secolare. Avvolti nel silenzio e nella quiete, i vigneti urbani del convento dei Frati Francescani Minori di San Francesco della Vigna vantano il primato di essere i più antichi della città lagunare e, oggi come allora, continuano la loro produzione di vino. Dal 2019, inoltre, il lavoro dei frati è seguito in prima persona dagli agronomi della cantina Santa Margherita e, in comune accordo, si è deciso di sostituire le vecchie viti di Teroldego e Refosco con Glera e Malvasia, nel tentativo di recuperare dei vitigni storici veneziani. 

La storia dei vigneti di San Francesco affonda le sue radici nel lontano Duecento, epoca in cui appartenevano al patrizio veneziano Marco Ziani, figlio dell’illustre doge Pietro Ziani. Fu proprio nel suo testamento, datato 25 giugno 1253, che il nobile stabilì che il terreno, la chiesa ed alcune botteghe fossero lasciati ai Frati Minori, i quali vi si stabilirono definitivamente. Perciò, la parrocchia di San Francesco della Vigna deve il suo nome al fatto che il luogo in cui sorge, in origine, era coltivato a vigneti, i più estesi e fecondi di tutta Venezia. 

Le vigne fanno dunque parte di un complesso architettonico unico, che ospita anche il convento dei Frati Minori e la Chiesa, una delle più imponenti di Venezia, opera del Sansovino e del Palladio, oltre all’Istituto di Studi Ecumenici, che ogni anno propone dei master di primo livello universitario sul dialogo interreligioso, e la Biblioteca, punto di riferimento per gli studiosi di teologia con i suoi oltre 200mila volumi, di cui 45mila antichi, provenienti da 11 fondi di vari conventi soppressi nel Veneto, tra cui spicca San Michele in Isola, dove è stata ritrovata l’ultima copia rimasta del primo Corano stampato in arabo a Venezia. 

È nei chiostri del convento che si trova il tesoro tra i tesori: uno di essi è stato adibito alla raccolta dell’acqua piovana per l’irrigazione, mentre gli altri due sono dedicati alla coltivazione di erbe aromatiche e vigneti. Nello specifico, le viti oggi occupano ben 1600 metri quadri di terreno, di cui 400 sono di Malvasia, e i restanti di prosecco di Glera. Tuttavia, fino al 2018 si coltivava Teroldego, un’uva piuttosto rustica tipica del Trentino, e Refosco dal peduncolo rosso, originario del Friuli, perché sono piante che resistono bene al caldo e alla siccità della Laguna. 

“In un chiostro abbiamo il classico Glera, perché vogliamo tentare di fare un prosecco veneziano, ma siamo ancora in fase di sperimentazione”, così frate Antonio Pedron, che da anni segue la produzione del vino a San Francesco, motiva il cambiamento, “mentre la scelta della Malvasia è perché gli Ziani avevano possedimenti in Istria e in Candia, e di conseguenza l’uva che può esserci stata a Venezia è un’uva che si sono portati a casa da questi territori e che hanno trapiantato qui”. 

Quella coltivata nel convento è un’uva ancora giovane, dall’identità non definita, e solo il prossimo anno, ovvero il terzo dal cambio di tipologia di vigna, potrà essere considerato di vendemmia vera e propria. Le premesse, però, sono promettenti, e già quest’estate le vigne di San Francesco hanno prodotto bene. 

Tanti sono stati gli accorgimenti presi per la coltivazione dei vigneti negli spazi del convento, a partire dalla scelta di condurre la produzione in modo biologico, fatta per rispetto del luogo. Ciò comporta il divieto di usare pesticidi: solo trattamenti naturali come rame e zolfo sono concessi. 

Per quanto riguarda il Glera, inoltre, i tecnici e gli enologi della cantina Santa Margherita hanno deciso di adottare un sistema di allevamento che richiamasse la tradizione della coltivazione delle vigne, puntando su un guyot semplice con un palo ogni vite e impostando le piante a circa un metro di distanza. E il tipo di tralcio che si è venuto a creare ricorda curiosamente il pastorale, il bastone dall’estremità ricurva usato dai sacerdoti. Il Malvasia, invece, ha un guyot a spalliera, e anche qui le viti sono più vicine, con una distanza sugli 80cm tra l’una e l’altra, perché si è scelto di puntare sulla qualità. 

L’aria salmastra che spira dalla laguna veneziana non è mai stata un problema. Anzi, se combinata con le proprietà dello spazio coltivato, può contribuire a dare all’uva un gusto unico. 

“La caratteristica del terreno è ciò che determina il gusto dell’uva, e noi qui siamo soggetti ad avere un terreno con l’influenza del salmastro dell’acqua, che arriva da sotto”, spiega il frate francescano, precisando che l’area dove si coltiva il Glera, ad esempio, sia tendenzialmente sabbiosa e quindi più facile non solo da annaffiare, ma anche ad asciugarsi. Sebbene quest’anno abbia sofferto parecchio la siccità, è tuttavia un terreno molto generoso, anche perché nel tempo i frati si sono impegnati a rigenerarlo biologicamente. 

Al contrario, il Malvasia viene prodotto in un chiostro con peculiarità diverse. “Qui il vantaggio dell’uva è che è anche riparata dai venti del mare ed è meno soggetta all’aria salmastra”, afferma Don Antonio, “anche il terreno è leggermente diverso dall’altro chiostro: è più terra, ci impiega più tempo ad assorbire l’acqua e più tempo ad asciugarsi”. 

Fino al 2012 la produzione dei vitigni era per il convento dei frati, e si beveva quel poco che si produceva. Ma da una decina di anni si è deciso, anche per rivalorizzare il territorio e aprirlo al mondo esterno, di porre ancora più attenzione, più lavoro e più impegno nella manutenzione. Da qui, la partnership con la cantina Santa Margherita. 

“È un modo di recuperare il nostro territorio e farlo conoscere alla gente. Un tempo i conventi erano di clausura, e nessuno poteva entrare; adesso si richiede l’apertura, i tempi sono cambiati, i frati anche, quindi cambiano anche le mentalità e le modalità”, conclude il frate francescano. 

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