Venezia, 28 novembre 2022 – Sedurre e, al contempo, occultare odori sgradevoli. E allora si profumano le parrucche, i vestiti, i guanti, il corpo, i ventagli, le monete, gli ambienti stessi in cui si vive. E i muschieri sono i detentori di queste segrete ricette, che mescolano rosa, lavanda, fiori d’arancio, muschio, ambra grigia e zibetto per farsi pagare “profumatamente” quello che per Venezia rappresentò, per secoli, uno status da privilegiati, ma anche un fiorente commercio. Il profumiere era il “muschiere”, il cui nome deriva dalla parola muschio, chiamato moscado, che non è il vegetale oggi tanto conosciuto ma la costosissima secrezione prodotta da un sacchetto peloso posto vicino all’ombelico del maschio di questo mammifero, un cervide che vive nelle montagne dell’Asia centrale e orientale, e utilizzata non solo nell’arte della profumeria ma anche come sostanza terapeutica e come ingrediente per imbalsamare i cadaveri. Le sostanze di origine animale sono le più usate tra tardo Medioevo e inizio dell’età moderna, in un’epoca in cui gli odori dovevano essere necessariamente forti per mascherare le scarse condizioni igieniche.
È grazie alle mani e alle abilità di questi alchimisti che esce una miscela in grado di conquistare le corti d’Europa. I profumi dei muschieri della Serenissima uniscono i balsami oleosi dell’Oriente con materie alcoliche ed essenze odorose. Sono loro che diluiscono le essenze in acquavite invece che nell’olio, una vera e propria rivoluzione tecnica che permette di conservare e commercializzare il profumo come mai si era potuto fare fino ad allora. I muschieri conservano queste fragranze in piccole preziose boccette di vetro, fatte a mano dai maestri vetrai di Murano, rendendole così alla portata di tutti i sovrani e nobili, uomini e donne, raggiungibili via mare dalla Serenissima.
Nel 1568 le botteghe dei muschieri sono 24: si concentrano sul ponte di Rialto, dove trovano posto ben sei botteghe, e lungo l’itinerario delle Mercerie, fino a Piazza San Marco. Le botteghe hanno i nomi più disparati, quali “Al Giglio”, “Alla Fenice”, “Alla Fortuna”, “Al Gatto”, “Alla Ninfa”, “Alla Pigna”, “Alla Sirena”, “Al Serpente”, “Ai Tre Calici”, e qui si vendono muschio, ambra, acque, olii, paste profumate, zibetto, ambra grigia, polvere di Cipro e guanti in pelle profumati. I muschieri non creano solo acque profumate, ma anche paste profumate, creme di bellezza e tinture per capelli per soddisfare la vanità delle nobildonne veneziane.
Nel 1574, Enrico III re di Francia, in visita a Venezia, entra nella bottega del maestro profumiere Domenico Ventura, che aveva il suo laboratorio in Merceria all’insegna del Giglio, e si concede acquisti costosissimi: compra del muschio per ben 1.125 scudi, una cifra vertiginosa. Ventura, all’epoca, era un muschiere famoso per vendere “cose rare al mondo” nella sua bottega e servire la maggior parte dei sovrani e principi d’Europa.
Nel 1660 i maestri muschieri sono 29 e, dai documenti, si sa che sono impiegate 81 persone tra lavoranti e garzoni e parenti. Tra di loro compaiono anche delle donne, che magari hanno ereditato la bottega dal marito defunto e ne portano avanti l’attività. Spuntano, intanto, botteghe in Ruga degli Oresi, a Santa Maria Formosa, a San Pantalon e a San Giovanni Grisostomo.
Anche nel Settecento le botteghe sono una trentina e continuano ad essere concentrate nel sestiere di San Marco, soprattutto nelle parrocchie di San Zulian, San Bartolomeo e San Moisè e nelle zone limitrofe come Santa Maria Formosa e Santi Apostoli. La professione è in mano, a larga maggioranza, a profumieri nati a Venezia, dove le famiglie si tramandano il mestiere di generazione in generazione.
Con l’arrivo di Napoleone finirà la supremazia di Venezia nell’arte del profumo e si passerà dalla bottega alla fabbrica.