Manifattura Tabacchi, storia di una emancipazione femminile che parte dalle sigaraie di Venezia

4 Febbraio 2022

Venezia, 4 febbraio 2022 – L’odore del tabacco era dappertutto, impregnava la pelle, i vestiti, i polmoni. Caldo e fumi stagnanti, acqua per tenere le foglie bagnate: la Manifattura Tabacchi non era un ambiente salubre nel quale lavorare. Se non sopportavi quell’odore nauseante che ti impregnava le narici dopo una giornata intera ad arrotolare sigari e sigarette, allora quello non era il posto adatto per passarci tutta una vita all’interno. Eppure, quello era un lavoro da donne. C’era un tempo in cui Venezia era una città “industriale”, un tempo in cui nelle fabbriche lavoravano soprattutto le donne, in ambienti malsani e mal pagate. Donne che, tuttavia, hanno saputo ottenere, a forza di lotte, recriminazioni e duri scioperi, dei diritti oggi considerati insindacabili. E le tabacchine, con Anita Mezzalira in testa, erano sicuramente tra queste. 

“La Manifattura Tabacchi, che si trovava a Piazzale Roma, era una grande fabbrica, prima privata poi statale, dove avveniva la produzione del tabacco, dalla foglia ai prodotti finali – racconta Maria Teresa Sega, studiosa dei movimenti delle donne in età contemporanea e autrice di un libro che racconta la storia della Manifattura – Era una fabbrica che impiegava manodopera prevalentemente femminile, soprattutto le sigaraie, che confezionavano i sigari a mano. Nel primo Novecento, su 1500 dipendenti più di 1000 erano donne. Ma erano molte in realtà le fabbriche femminili a Venezia: c’erano la fabbrica di fiammiferi Baschiera, il cotonificio a Santa Marta, oltre ai laboratori delle perlaie e delle impiraresse”.

I Tabacchi, ora Cittadella della Giustizia, comprendevano una vasta area di 50 mila quadrati tra il rio di Santa Maria Maggiore, piazzale Roma e il rio Terà dei Pensieri. Il primo insediamento fu costruito nel 1786, ma poi con gli anni fu rimaneggiato. Il tabacco arrivava greggio in balle e veniva trattato e trasformato in sei diversi reparti che corrispondevano ad altrettante fasi di lavorazione - apprestamento, formazione sigari, tabacco da pipa, tabacco da fiuto, sigarette, recupero scarti - quindi impacchettato e spedito. Una lavorazione completamente manuale che solo alla fine del 1960 venne quasi interamente meccanizzata. 

“Essendo fabbriche femminili c’era la necessità di conciliare il lavoro fuori casa con la funzione materna – spiega – ad un certo punto fu varata una legge per la tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli che tentò di porre qualche limitazione e prevedeva che nelle fabbriche femminili ci fosse una sala dove le madri potessero allattare: la Manifattura di Venezia stipulò un accordo con l’asilo Giustinian, un asilo privato fondato da Elisabetta Michiel Giustinian, in Rio Terà dei Pensieri di fronte alla Manifattura, dove le tabacchine lasciavano i figli prima di entrare in fabbrica. Poi avevano un’ora di tempo nell’intervallo del pranzo per andarli ad allattare”. 

Le tabacchine entrano in Manifattura giovanissime, come apprendiste, a tredici anni. Lavorano in grandi saloni, sedute ai due lati di lunghi banconi al cui capo vi è la sorvegliante. Sopra una tavoletta, con un coltello, tagliano la foglia eliminando le coste, riempiono la fascia ottenuta con il tabacco sminuzzato che tengono in un sacco, la bagnano di pasta d’amido e la arrotolano, quindi tagliano la punta del sigaro facendo azionare un taglierino a pedale. I sigari devono risultare tutti uguali; le maestre li pesano e li misurano, pronte a rompere quelli che non risultano perfetti. In una giornata di lavoro devono produrre un numero determinato di sigari (che arriva a 1200 per i “Roma”). Il lavoro è pesante, sorvegliate da una gerarchia molto rigida alla cui sommità stanno sempre gli uomini. Sedute una vicina all’altra, in un ambiente caldo-umido che spesso fa perdere i sensi, tra esalazioni di nicotina che impregnano il corpo e che portano anche ad aborti. I controlli sono pesanti, soprattutto durante il periodo fascista e per paura di furti di tabacco le donne vengono pesantemente perquisite prima di uscire, arrivando a dover subire una visita ginecologica. Davanti a questo si ribellano, cantando in fabbrica anche se era proibito, rovinando la produzione, e scioperando ad oltranza.

“Rispetto a quelle, durissime, delle altre fabbriche, le condizioni delle tabacchine risultavano anche di relativo privilegio – continua Sega – Per quanto misero, il loro salario era superiore a quello delle operaie private, rafforzato dalla certezza della paga e dalla stabilità dell’impiego. E avevano un orario leggermente inferiore a quello delle altre lavoratrici, le cui condizioni erano molto più pesanti: dalle cotoniere ai fiammiferi, la Saffa e tante altre piccole fabbriche. Questo perché la Manifattura Tabacchi era una fabbrica di Stato, e quindi c’era maggiore controllo e attenzione. Lo si intuisce quando, nel 1904, viene emanata la legge che sancisce a 15 anni l’età per entrare in fabbrica, legge che qui viene rispettata anche se fino a un certo punto, perché si poteva entrare anche prima come apprendiste. Alla Baschiera o nelle vetrerie invece si trovavano le bambine”. 

Ma quella della Manifattura Tabacchi è anche una storia di amicizia e di solidarietà tra donne, che si aiutavano quando una di loro era in ritardo o se non aveva confezionato il numero di sigari previsto. È una storia di donne veneziane che lottarono, a suon di scioperi e di disobbedienza, per ottenere migliori condizioni di lavoro, per una riduzione dell’orario di lavoro, per un aumento della paga. Ed è una storia di emancipazione femminile, di cui loro sono sicuramente un simbolo. 

Negli anni ‘70 le ultime tabacchine assunte si organizzano in un collettivo per lottare e ottenere asili-nido, mense, tempo pieno scolastico. Ottengono che la ginecologa del vicino consultorio di campo della Lana vada una volta la settimana a rispondere alle loro domande. Ma inizia poi il declino fino alla chiusura definitiva, nel 1996, da parte del consiglio d’amministrazione dei Monopoli di Stato. 

“Si arriva alla chiusura perché, progressivamente cambia il mercato e la richiesta – conclude Sega – la produzione in periodo di guerra andava molto bene, perché le sigarette venivano mandate al fronte. Ma è chiaro che poi c’è stata una crisi, dovuta al fatto che progressivamente si è intervenuti per limitare il consumo di tabacco e di sigarette, soprattutto da parte dello Stato”.

Credits foto storiche: Archivio associazione rEsistenze

 

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