Detti e modi di dire veneziani, 1600 anni di ironia che sopravvivono ancora oggi nelle espressioni dialettali 

4 Marzo 2022

Venezia, 4 marzo 2022 – “Ti xe un tagiatabari”, “Ti xe secco incandio”, “Andemo a bever un’ombra”, “All’epoca de Marco Caco”. Qualcuno dice che non si conosce bene un luogo se non se ne conosce qualche suo modo di dire. E a Venezia i detti e i modi di dire sono davvero centinaia. Molti sono scomparsi come “Andar in spadina” o “Andar a Patrasso co tutto”, qualcun altro è diventato talmente importante da essere italianizzato, come “Tagliare la testa al toro”, ma moltissimi sono ancora oggi in uso nelle espressioni dialettali quotidiane. Nei modi di dire veneziani traspira la storia della città che, come vuole la tradizione, affonda le sue radici 1600 anni fa. Ci sono l’acqua, le barche, il vino, il popolo, il tempo. Insomma, tutta la venezianità sta in poche parole, che diventano l’espressione genuina di intere generazioni: possono apparire superficiali, ma nascondono in realtà insegnamenti spiccioli e rispecchiano lo spirito schietto, pieno di inventiva e sempre ironico e autoironico, di una popolazione abituata a stare sull’acqua, a regnare per terra e per mare, a convivere con razze, religioni e culture diverse. 

A raccontarli sono Marco Trevisan, fondatore di Venipedia, e Maurizio Vittoria, presidente del Comitato Venezia per la tutela, la preservazione e la valorizzazione della cultura veneta e di Venezia.  

“Visto il periodo, possiamo ricordare i detti legati alla quarantena – raccontano – come “Metemola in quarantena o mandemola al lazzaretto”, ossia quando ci raccontano delle storie che non ci convincono i veneziani le mandano in quarantena per lasciar passare un po’ di tempo e verificare se queste storie sono effettivamente veritiere. Ma può anche significare lascia stare questa storia”. 

Ci sono i detti che strizzano l’occhio alla tradizione popolare, come “Ti xe bruta come la peste” che  deriva dalla presenza di una statua, sull’altare maggiore della Basilica della Salute, che rappresenta una vecchia brutta e sdentata e i veneziani avevano l’abitudine di indicarla ai bambini come la peste per far loro paura; oppure “Ti xe un tagiatabari” che trova le sue radici nel Settecento, perché pare che un gruppo di “sfaccendati”, di notte, si divertisse ad arrivare alle spalle dei nobili e tagliare i loro tabarri, ossia i mantelli con cui si riparavano dal freddo. “Tagiatabari” per un veneziano, da allora, significa parlare alle spalle di qualcuno. Poi ci sono i modi di dire che affondano le radici nei fatti storici. 

“Come “Seco incandìo”, che vuol dire essere magrissimo e deriva dalla storia dell’assedio dei Turchi su Candia, ora Creta, che durò più di 20 anni – continuano – e che ridusse alla fame il popolo dell’isola. L’avvenimento ebbe molta risonanza a Venezia, per le spese sostenute, ma soprattutto per gli stenti che dovettero subire gli isolani. Oppure il famoso “Andemo a bever un’ombra”, che si sente spesso risuonare nelle calli e tradotto sta per “Andiamo a bere un bicchiere di vino”. Dalla fine del 1300, sotto il campanile di San Marco c’erano le osterie ambulanti che servivano il vino su tavoli che venivano spostati durante il giorno secondo il movimento della sua ombra per non rovinare la bevanda. Si diceva: “Andemo a bever all’ombra” che nel tempo è diventato andemo a bever un’ombra”. 

Sempre molto in uso e legato alla storia di Venezia è “Duri i banchi”, un’espressione che si usa per incoraggiare e dare conforto a una persona in un momento difficile. Duri i banchi significa tener duro, andare avanti e il suo significato risale all’epoca della Serenissima, quando la città era regina dei mari e i vogatori erano seduti ai banchi, ossia alle panche. “Duri ai banchi” era l’incitamento o l’allarme che dava il capitano per avvertire i rematori che stavano per speronare e assaltare, oppure stavano per essere assaltati, e quindi dovevano tenersi saldi ai banchi. Il detto è stato poi compresso, come spesso succede, con “Duri i banchi”. 

Un altro detto storico ancora in uso è “Saver che ora che xe o te fasso veder mi che ora che xe”. Questa espressione dialettale risale sempre al periodo della Serenissima, quando le persone che si macchiavano di gravi reati venivano condannate a morte tra le colonne di Marco e Todaro, rivolti verso la Torre dell’Orologio affinché potessero vedere l’ora esatta della loro morte. Da allora è diventato un modo per dire “attento che te la faccio pagare”. 

“Ci sono poi le espressioni che nemmeno l’Accademia della Crusca riesce a tradurre o trovare un sinonimo – sorridono Trevisan e Vittoria – è il caso di “Saver da freschin” che si usa per indicare un particolare odore di qualcosa che va a male, un insieme di odori non particolarmente piacevoli. Ma siccome i veneziani sono ironici, viene declinato anche per prendere in giro una persona saccente che pensa di sapere tutto e gli si risponde “Cossa ti vol saver, ti sa da freschin”. 

Venezia, città delle nebbie fitte, è l’occasione per dare vita ad altre famose espressioni gergali. A Venezia la nebbia si chiama “caligo” e ci sono alcuni modi di dire che ancora oggi sono in uso tra gli abitanti: come “El xe perso per el caligo” per indicare una persona stralunata che non riesce a trovare la direzione come succede in presenza di nebbia, oppure “No sta filar caligo” che significa “non fissarti su una cosa” e deriva dal fatto che provare a “filare la nebbia” è una cosa impossibile. 

Poi c’è la Venezia con le sue caratteristiche morfologiche. Quando si dice “Sie ore la crese e sie ora la cala” ci si riferisce alla marea ma si usa anche per bollare una cosa come una banalità, perché per i veneziani è logico che sei ore l’acqua cresce e sei cala. Oppure “Andar de là de l’acqua” significa morire, perché Venezia è l’unica città ad avere il cimitero in un’isola. Quindi andare al di là dell’acqua ha un significato legato alla fine della vita di una persona. 

E ancora: è facile che qualche volta si possa sentire l’espressione “Ti ga una testa da batipali” che deriva dal fatto che a Venezia le paline vengono da sempre impiantate sul fondo della laguna e dei canali con grossi martelli o magli in legno. Quindi, indica una persona che ha la testa dura, che è testarda. Oppure “Ti xe una testa da marsion”, che si riferisce al ghiozzo, un pesce che vive sul fondo della laguna, ha la testa grande e si muove lentamente. Tacciare qualcuno di avere una testa da “marsion” vuol dire accusarlo di essere una persona non molto sveglia. 

“Un altro molto in uso tempo fa, ma adesso in disuso, è “No ti xe bon nianca de far triaca o da far triaca” – concludono i due veneziani – ovvero non sei nemmeno utile per fare la teriaca, che era la panacea di tutti i mali, un farmaco a cui la Serenissima teneva tantissimo e la cui ricetta era in mano solo a pochissimi farmacisti. La teriaca era composta da più di 60 ingredienti tra i più disparati, quindi il fatto di dire a qualcuno che non lo si può  utilizzare nemmeno per fare la teriaca vuol dire che è una persona di nessuna utilità, un buono a nulla”. 

E se passando nelle calli e sui ponti affollati da turisti si sente qualcuno gridare “’Vanti col Cristo che la procession s’ingruma” allora è il caso di affrettare il passo perché significa che i veneziani hanno fretta di passare e incitano a sbrigarsi e lasciare libero il passaggio.

 

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